Loro e noi. Il carcere è sempre stato visto nell’immaginario collettivo come un luogo da relegare ai margini della società, con distacco e spesso con indifferenza. In realtà sono molti anni che nella società si fa largo un sentiment diverso tanto che potremmo considerare di essere di fronte ad una nuova consapevolezza. Il carcere è parte della società non un corpo estraneo. Ecco che i sostantivi socializzazione e rieducazione evocati nella Carta costituzionale non sono solo dei principi valoriali a cui ispirarsi, ma acquisiscono un senso se vengono realizzate azioni concrete. “La nostra cooperativa nasce in carcere nel 2012 attraverso la richiesta di un consorzio, di cui facciamo parte, di gestire la lavanderia all’interno dell’Istituto penitenziale minorile, di Quartucciu vicino a Cagliari, (l’unico carcere minorile esistente in Sardegna)”, ci dice Anna Tedde, Presidente della Cooperativa sociale Elan.

“Partecipando ad una gara abbiamo vinto l’appalto per il lavaggio delle divise dei vigili urbani di Cagliari. Dal punto di vista educativo è un segnale molto forte. Vuol dire trattare in modo adeguato i dispositivi di protezione individuale che molte altre lavanderie non vogliono o non sono in grado di manutenere. Abbiamo un costo del lavoro che è competitivo rispetto ad altre realtà, in quanto possiamo usufruire della legge Smuraglia che riconosce un contributo fino a 540 euro al mese per ogni assunto”. Ma il percorso è solo all’inizio. Nel 2018 la Casa circondariale per adulti di UTA pubblica una manifestazione d’interesse per gestire la lavanderia all’interno dell’istituto penitenziario per adulti.

In particolare, subito dopo aver risposto alla manifestazione da parte della casa Circondariale di UTA per la gestione della lavanderia, la Fondazione con il Sud ha pubblicato il bando “e vado a lavorare” e, in risposta, la nostra cooperativa ha presentato il progetto Lav(or)ando con lo scopo di migliorare le condizioni di occupabilità e favorire l’integrazione sociale di 24 soggetti sottoposti a provvedimenti penali detentivi, attraverso opportunità lavorative e formative dentro e fuori dagli istituti di pena. Lavorando è stato uno tra gli 8 progetti sostenuti in Italia dalla Fondazione con il Sud. Il nostro progetto viene considerato interessante, viene finanziato e quindi parte la lavanderia. A differenza del carcere minorile in quello degli adulti non laviamo gli indumenti dei detenuti anche se prossimamente auspichiamo di poterlo fare”.

Lav(or)ando non rappresenta solo un progetto, giusto?
“Lav(or)ando, oltre ad essere la denominazione del nostro progetto, è anche un marchio etico registrato al Mise al quale possono aderire tutte le imprese, ma anche i soggetti pubblici, che si riconoscono nei principi dell’Economia Civile e vogliono contribuire a favorire iniziative di inclusione sociale dei detenuti. Il contributo può essere reso in maniera duplice: sia in qualità di azienda ospitante, accogliendo dunque presso la propria azienda le persone detenute con progetti di inserimento lavorativo, ma anche affidando commesse di lavoro e servizi di lavanderia alla cooperativa Elan per far funzionare le due lavanderie presenti nella Casa Circondariale di Uta e nell’Istituto penitenziario minori di Quartucciu dove vengono impiegati detenuti”

La “batteria” degli addetti all’interno della lavanderia come funziona?
“Siamo in prigione e ovviamente è una “gabbia di matti”. Fare qualsiasi cosa è sempre molto complicato”, ci dice Elenia Carrus vice Presidente della Cooperativa e Resp. dell’Area Inclusione “La lavanderia, nonostante la sua collocazione all’interno dell’area detentiva e malgrado le complicazioni che questo genera in termini di operatività e tempistiche, è un’impresa/unità produttiva attiva e in equilibrio economico. Stiamo cercando di alzare l’asticella. Attualmente il nostro mercato di riferimento è quello delle Forze armate e dell’ordine, Elan infatti attualmente serve i principalmente i Ministeri della Difesa, della Giustizia e degli Interni con il lavaggio delle divise e della biancheria di Carabinieri, Esercito, Marina Militare, Vigili del Fuoco, Polizia di Stato.

La scelta è nata da un’indagine di mercato, ma ha anche una forte valenza educativa e simbolica: il fatto che i detenuti stiano contribuendo al funzionamento delle forze dell’ordine attraverso il lavaggio dei loro “panni sporchi” può essere visto come un atto simbolico di riparazione e di responsabilità, un modo per loro di “ripulire” o “rimediare” in qualche modo agli errori del passato, dimostrando attraverso il loro lavoro un impegno verso la società. Nel carcere minorile i ragazzi sono affiancati da due tutor, tra cui una psicologa, poi abbiamo un responsabile tecnico che segue entrambe le lavanderie. I lavoratori svolgono un percorso di orientamento professionale necessario a definire il bilancio delle loro competenze, utile in fase di accompagnamento all’uscita della detenzione per favorire il loro inserimento nelle imprese del territorio. Le imprese possono operare nell’ambito della lavanderia, ma non necessariamente, dipende molto dalle competenze che richiede il tessuto produttivo locale.

Ad esempio, abbiamo inserito un uomo di 60 anni che è entrato in carcere per un problema di tossicodipendenza che l’ha indotto a delinquere e che si è trovato senza alcuna relazione familiare a supporto. Niente soldi e niente casa. Siamo riusciti a collocarlo in un’azienda del territorio che gestisce rifiuti. Le persone avviate al lavoro iniziano sempre con un tirocinio. Paradossalmente privilegiamo coloro che hanno pene più lunghe in modo che si possa dare una stabilità al rapporto di lavoro. In realtà la pedagogista procede con delle selezioni in quanto la forza lavoro deve avere alcuni requisiti essenziali, pensi che una delle difficoltà maggiori riguarda la comprensione del testo non solo detenuti non italiani ma anche di quelli provenienti dal territorio sardo. Abbiamo cercato di creare delle “batterie di lavoro” che ci hanno permesso, come selezionatori, di fare emergere una dote che non pensavamo di avere, ci siamo scoperti equilibristi”.

“I ragazzi hanno un contratto di lavoro regolare, aggiunge la Presidente Anna Tedde appartenente al CCNL Cooperative sociali. Eroghiamo la retribuzione all’istituto penale il quale gira loro il denaro. Esiste un monitoraggio da parte dell’istituto e la struttura trattiene anche una parte della retribuzione che viene definita “sopravitto” essendo ospiti della struttura. Una sorta di contributo alle spese di locazione forzata o che possiamo interpretare come una forma di “risarcimento” dei detenuti alla società. Per quanto riguarda il carcere minorile, in molti casi per molti di loro è il primo lavoro ed e la prima volta che si interfacciano con un impegno prolungato. Devono rimanere all’interno di un sistema di regole con diritti e doveri. Noi utilizziamo tutta una serie di strumenti premiali ed eventualmente di ammonimento che non sempre all’interno di un ambiente carcerario sono utilizzati. Nell’ambito della lavanderia il nostro criterio è che tutti sappiano fare tutto, poi ci sono alcuni che sono specializzati nel lavaggio, con il mangano o alla piegatura ecc. Tutta la biancheria è tracciata attraverso un macchinario che permette di leggere il barcode che collochiamo sui capi e che ci permette in maniera automatizzata di monitorare i capi in ingresso e in uscita.

Abbiamo inoltre dotato gli istituti penitenziari di pannelli fotovoltaici in modo da ottenere un consistente risparmio dei costi energetici”. Progetto, numero di addetti, formazione, curiosità, criticità ma anche punti di forza, ne parliamo con Francesco Tedde responsabile delle lavanderie. “Nel carcere minorile abbiamo tre addetti mentre nel carcere degli adulti sono in quattro. Il contesto è oggettivamente complicato e non solo per i detenuti. Pensi solo che all’interno della lavanderia non possiamo interagire con i telefoni e non c’è connessione internet, tutto ciò rende meno fluido il lavoro. Quando si incontrano detenuti che sono idonei al lavoro in molti casi si fidelizzano anche perché per loro il lavoro coincide con il vivere una distrazione, un momento di libertà”.

Quali sono le caratteristiche richieste?
“Voglia di lavorare e precisone. Per quanto riguarda la commessa dei vigili del fuoco di Oristano, loro richiedono che ogni divisa sia etichettata con il nome e con altre info importanti. Parliamo di DPI che hanno necessità di essere trattati con molto scrupolo. In alcuni casi ci troviamo di fronte al problema dell’analfabetismo e ciò porta a complicazioni, contare i capi, compilare le bolle di consegna diventa uno scoglio insuperabile. Cerchiamo di renderli più autonomi possibile nel loro lavoro. L’utilizzo del computer e dei software necessari per l’etichettatura dei DPI è fondamentale”.

Qual è il percorso che devono affrontare per poter lavorare?
“A seguito dei colloqui si procede con la graduatoria. Chi è stato selezionato inizia un tirocinio di cinque mesi in affiancamento all’operatore più esperto e nel caso la sua condanna rientrasse nei parametri previsti dall’Art. 21 potrà proseguire il tirocinio di altri 5 mesi all’esterno della struttura, ma nel caso di incompatibilità, viene assunto e prosegue l’esperienza internamente. I tirocinanti percepiscono 300 euro al mese per una totalità di 15 ore settimanali. Consideriamo che per loro il lavoro è una boccata di ossigeno. Ci muoviamo in un contesto lavorativo complicato e non solo per i detenuti è l’ambiente in sé che rende tutto difficile”.

Ci sono curiosità, casi particolari, che nel suo ruolo ha potuto vedere e che ci può riportare? “Ci sono stati dei tentativi di fare entrare nella struttura penitenziaria attraverso la lavanderia “cose” che sono incompatibili con il regime carcerario, l’autore è stato individuato – grazie ad un collega di lavoro, peraltro con una condanna molto pesante – è stato opportunamente sanzionato dall’amministrazione e ne è seguito il licenziamento. Ci sono stati dei tentativi di mettersi in proprio, da parte di un detenuto, il quale cercava di fare business lavando gli indumenti degli altri colleghi. In passato, c’è stata anche un’evasione con una scala di nostra proprietà, per fortuna regolarmente autorizzata, che veniva utilizzata per i lavori di smontaggio e rimontaggio delle tende da sottoporre a lavaggio. Questo è il carcere ed è la realtà con la quale ci confrontiamo quotidianamente”.

Come responsabile di lavanderia nella struttura per minori e per adulti, qual è la differenza lampante che balza agli occhi?
“Con i minori è molto più difficile perché non hanno ancora realizzato che il lavoro è un’opportunità. Mentre gli adulti sono più coscienti hanno bisogno di soldi da inviare a casa e pensano necessariamente a mettersi nelle condizioni di imparare un lavoro per potersi poi mantenere economicamente quando ritroveranno l’agognata libertà. In conclusione, come ci ricorda un vecchio adagio, i panni sporchi si lavano in famiglia noi siamo differenti li laviamo direttamente in carcere”, conclude Francesco Tedde. •

di Marzio Nava
DETERGO Magazine # Giugno 2024